Enrica Passoni

Passoni parte da fotografie scattate da lei stessa o trovate su giornali e riviste, perlopiù primi piani di volti femminili, e interviene su di esse con un processo molteplice e stratificato.

La prima operazione è eseguita in postproduzione, tramite Photoshop: cancella i tratti dei suoi soggetti, sfuoca i contorni, uniforma gli sfondi con tinte monocromatiche. Il risultato è un’immagine doppiamente appiattita: dal punto di vista formale ma anche identitario. Chi sono queste persone?

Il riconoscimento è negato, da parte dell’osservatore ma anche dell’osservato. L’identità, in altre parole, è una conquista fragile, un impervio percorso di definizione che non si può esaurire in un rapporto univoco, come quello tra i tratti del volto e il carattere di un individuo. Sono poi spesso aggiunti inserti in tessuto o decorazioni in frottage, ulteriore mascheramento dell’identità e suo livellamento in chiave puramente decorativa. È un inganno, una finta giocosità che dona ulteriore tragicità al dolore individuale.

Le radici di questo disagio possono essere riscontrate anche nelle dinamiche famigliari, ci suggerisce l’artista con i due ritratti di famiglia posti alle estremità dello spazio espositivo: il padre e i figli scrutano fieri, le bambine sono invece oscurate, “contorni umani”, come dice l’autrice, immagini della loro stessa mancanza.

Una prospettiva lacaniana che Passoni riconosce ma non vuole limitare esclusivamente al femminile, anche se in questa mostra ad essere frammentata è solo l’immagine della donna, perché il suo lavoro è intimamente autobiografico. Due lavori sono particolarmente emblematici in tal senso: l’unico ritratto di donna con i connotati in evidenza è esattamente tagliato a metà, sfasato, fuori fase come chi non riesce a riconoscersi appieno; il secondo è il ciclo del corpo, dove sono immortalati dettagli di membra (il collo, le clavicole, la spalla…) e di vestiti in pizzo o intimo, senza che però si possa accedere ad una visione d’insieme. Ancora, è proprio Lacan ad avere parlato della “fantasia del corpo in pezzi” come radice dello sguardo feticista.

L’altro è visto come oggetto e non come soggetto, come parte e non come insieme. Disgregazione che avviene però anche all’interno della nostra stessa auto percezione: in fondo alla sala è posto provocatoriamente uno specchio dove lo spettatore può osservarsi all’interno della mostra, circondato da questi ritratti muti.

E noi siamo in grado, ci chiede Passoni, di vederci per davvero? L’interrogativo rimane aperto alle risposte di ognuno. La chiave, forse, risiede nel non smettere mai di cercare.

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