Elisabetta Sgobbi

La mostra titola “Medicamenta”, mutuando il titolo da uno dei componimenti poetici che ha consacrato la poetessa Patrizia Valduga. Elisabetta Sgobbi è un’ambasciatrice di mondi interiori. In questa mostra l’autrice omaggia la poesia con un tributo a quelle che l’artista individua tra le proprie “madri spirituali” – Sylvia Plath, Emily Dickinson e Patrizia Valduga. Lo sguardo dell’artista è punto di vista femminile che indaga con profondità poetica le tante sfumature dell’essere e quindi, necessariamente, della relazione, in perenne alternanza tra “dolori” e “rimedi”. In questa esposizione, il filo rosa che lega le opere di Elisabetta Sgobbi è sempre la vita vera, vissuta. A partire dall’esperienza personale – da un preciso, intimo particolare – Sgobbi raggiunge un potente atomo d’universale. Per questo i suoi componimenti artistici parlano e riverberano in ognuno di noi. Sempre intrisi di struggente bellezza e profondità.

“Questa mostra di Elisabetta Sgobbi ha un corpo e una voce. L’artista si muove da sempre nel percorso dell’installazione, abbracciando svariate articolazioni delle arti visive: dal cut up al ready made, dall’assemblaggio alla composizione pittorica, poetica e installativa. Senz’altro una poliedricità di mezzi – e una pluralità di strumenti – che le servono per dare vita a un unicum, un corpo artistico che, appunto, ha parola. In questo caso la voce è quella della poesia, dalla quale deriva il titolo della mostra che si rifà, appunto, ad un libro di poesie di Patrizia Valduga, ma che trova il suo dirsi anche in quella musica di sottofondo che accompagna l’intero percorso espositivo: l’artista infatti crea sempre accompagnandosi a musiche precise.

Principale punto di osservazione è il trittico composto da Sgobbi per un omaggio a tre grandissime poetesse della storia: Sylvia Plath, Emily Dickinson e Patrizia Valduga.

Scuote nel profondo il prezioso lavoro che Sgobbi dedica a quella che forse è la più struggente e malinconica poesia di Sylvia Plath, morta suicida all’età di trent’anni: I’m vertical. In questa poesia in cui la Plath sogna di essere orizzontale di modo da avere “un aperto colloquio” con il cielo e, così facendo, che i fiori e gli alberi finalmente possano avere del tempo per lei, Sgobbi lega con del fil di ferro un elemento organico, una corteccia da cui spuntano verdi licheni e la delicata scritta “I’m vertical”. Un’opera semplice, come lo sono sempre i lavori di Sgobbi, puliti, essenziali, delicati eppure altamente simbolici: piccole perle che gridano il dolore, ma sempre capaci di trasformarlo in bellezza.

Si diceva del corpo: sono una quindicina le opere che Sgobbi propone per questa mostra; tre le installazioni che di questo corpo vanno a costituire i piedi, il cuore e la testa. I piedi sono “La signora B”, un’installazione composta da un paio di scarpette di raso con al loro interno cocci di vetro e punte d’acciaio. Impossibile indossarle, quindi. Se indossi queste scarpe accumuli ferite. Bisogna essere senza scarpe per avanzare liberi.

Il cuore è la seconda installazione che titola: “Quello che tu non vedi” ed un cuore in vetro, trafitto da chiodi arrugginiti e installato su un disco concavo di specchio. Immaginando di porre la nostra faccia davanti allo specchio, vedremo la sovrapposizione del nostro volto con quella del cuore trafitto. Ogni volto ha una storia, ogni uomo nasconde un dolore. Ma anche un cuore.

La testa è data da un elmetto italiano ricoperto da un centrino in pizzo e con uno specchio ovale che ce ne fa immaginare il volto, o meglio: propone il nostro volto che si specchia. Anche in questo caso il rispecchiarsi dovrebbe fermare l’atto di violenza perché chi intende colpire l’altro, sta colpendo se stesso; questo il significato di: “Difesa – Guardami, Guardati!”.

Un continuo gioco degli specchi che svela la profondità e la verità di chi abbiamo davanti e, necessariamente, di noi stessi. Seguendo questo intento programmatico avviciniamo l’originale “Me, Myself and I”, una vertiginosa installazione composta da una radiografia e da uno specchio organizzate in sequenza di modo che la persona che l’osserva possa fare un viaggio all’interno di se stesso, nella sua psiche ma anche nel suo corpo, fatto di carne ed ossa, e guardando se stesso riconoscere tre distinti momenti del proprio essere qui e ora, in bilico tra apparenza ingannevole e tenerezza e miseria della carne.

Ironico il dittico “I feel good” e “Sto bene” dove le due scritte emergono da una contrapposizione cromatica data una sequenza di blister di farmaci che compongono due grandi tele. Dai rimedi farmacologici passiamo invece al dittico che un po’ riassume la poetica di Sgobbi, in continua alternanza tra il percepire dolori (Noi che abbiamo l’anima soffriamo più spesso) e saperli “medicare”. Questi suoi medicamenta sono appunto i rimedi al dolore, che l’autrice affida alle arti nobili: la poesia, la musica, la pittura, l’arte.

Questa è una mostra poetica che ci svela la delicatezza di un’artista intima, profonda, che trasforma la sofferenza in uno stato di grazia. Il suo essere schiva e pensosa sono i tratti distintivi di un’artista che avvicina il mondo attraverso l’arte, sempre in punta di piedi.

A mio personale avviso, quasi inconsapevole di quanta potente voce abbiano invece i suoi lavori, perfetti ambasciatori del linguaggio contemporaneo, ma soprattutto: potenti momenti di verità per un risveglio dell’anima.

Anima che è tenerezza di piuma, cuore candido come un battito d’ali, nido di calore e poesia, ma che al dolore dice il suo NO: mai revocabile, mai negoziabile; eppure, con grazia, sottovoce, in punta di piedi…”

Breve cenno biografico dell’artista:
Elisabetta Sgobbi, nata a Padova, laureata in Architettura allo IUAV di Venezia, ha coltivato molteplici interessi, dal restauro di oggetti di recupero, all’illustrazione, alla creazione di manufatti tessili. Questo l’ha portata ad unire alla pittura, la passione per l’assemblaggio e la ricerca dei più diversi materiali e tecniche per esprimere a pieno un sentire profondo, ricco e variegato, legato all’universo femminile e all’introspezione.
Vive la musica in modo profondo, per questo associa ad ogni opera un brano musicale che amplifichi e arricchisca la parte emozionale.

 
 
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